Il lockdown in Libano suona familiare per la generazione che ha vissuto la guerra civile dal 1975 al 1990: lunghe ore spese in casa, con gli sprint velocissimi fuori per prendere i rifornimenti. La gioia di vivere di Beirut e di tutto lo Stato nei decenni trascorsi dopo il conflitto riprendevano il senso dell’esistenza così carica di libertà dopo la privazione. Mi ricorda molto Belgrado questo modo di condurre il quotidiano della capitale del paese dei cedri. Anche la capitale dell’ex Jugoslavia ha vissuto il decennio degli anni Novanta di isolamento internazionale dove la crisi era regola. La rinascita è passata attraverso i Cafana sempre pieni degli anni Duemila.
Un 45% dei libanesi vive con meno di 3.100 dollari all’anno. Più del 60% dei 2 milioni e 800mila conti correnti bancari contiene meno di 5 milioni di lire libanesi (3.300 dollari).
Nonostante le apparenti ristrettezze i 4 milioni di cittadini sono sempre stati stereotipati come stilosi o vanesi. E anche in questo tempo funesto dovuto al virus non è mancato la bellezza dell’essere bon vivant con mascherine e guanti all’altezza.
Non mancano però gli esempi di disperazione come chi sfida il coprifuoco per denunciare la penuria delle condizioni di vita. Un tassista ha dato fuoco alla sua auto dopo essere stato multato per la violazione del limite di un passeggero. Un rifugiato siriano il 5 aprile si è immolato dandosi alle fiamme.
Il gabinetto governativo ha chiesto all’esercito di distribuire 400.000 sterline libanesi a ogni famiglia bisognosa. Ma non sanno quali sono le famiglie che effettivamente ne hanno bisogno.
Contraddizioni di un paese nato per essere particolare.
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