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Dopo diversi mesi di discussioni e di mediazione statunitense, Israele e il Sudan hanno deciso di stabilire delle relazioni diplomatiche. Nelle stesse ore, il Sudan ha ricevuto il nulla osta a un finanziamento annuale di un miliardo di euro dalla Banca Mondiale. Il sottosegretario al tesoro statunitense benedice il successo raggiunto poco meno di un mese fa quando Khartoum è stata depennata dalla lista dei paesi terroristi.
Questo negoziato rientra all’interno degli accordi di Abramo del 15 settembre scorso raggiunti tra Tel Aviv e le due monarchie del Golfo, gli Emirati arabi uniti (Eau) e il Bahrein, a cui si era aggiunto anche il Marocco a metà dicembre.
Nel giro di pochi mesi quattro membri della Lega degli Stati arabi, unendosi all’Egitto (1978) e alla Giordania (1994), hanno infranto il tabù del Tatbi’, la normalizzazione con Israele, e abbandonato il Muqata’a, cioè il suo boicottaggio.
Il riavvicinamento tra Tel Aviv e Khartoum è particolarmente significativo, dal momento che proprio nella capitale sudanese il 1° settembre del 1967 era stato costituito “il fronte del rifiuto”, composto da nove paesi intenzionati a proseguire la lotta conto Israele per il recupero dei territori perduti nella guerra dei sei giorni (5 – 10 giugno 1967).
In quell’occasione erano stati proclamati i “tre no” che avrebbero plasmato le relazioni arabo – israeliane fino alla fine degli anni ’70: “no” alla pace con Israele, “no” al suo riconoscimento e “no” ai negoziati.
la posizione della lega araba
La triplice normalizzazione degli ultimi mesi segna la fine dell’iniziativa di pace araba adottata al vertice di Beirut della Lega araba del marzo del 2002. Questa prevedeva l’instaurazione di ” relazioni normali” con Israele in cambio del completo ritiro dai territori occupati a partire dal 1967 e di una soluzione equa al problema dei rifugiati palestinesi.
Ufficialmente, la posizione della Lega è ancora definita dal piano Abd Allah, dal nome del suo defunto monarca saudita all’origine della proposta. Tuttavia, i rapporti di forza all’interno di questo organismo vedono ormai in vantaggio i sostenitori della normalizzazione. Tra cui gli Emirati arabi uniti, Bahrein, l’Egitto e soprattutto, anche se non lo riconosce ancora ufficialmente, l’Arabia Saudita.
Per Riad, come per Abu Dhabi e Manama, Tel Aviv è un logico e sicuro alleato nella guerra fredda con Teheran. Queste monarchie non vedono più Washington come affidabile protettore di una volta. Quello che, per esempio, aveva organizzato la rappresaglia in seguito all’invasione del Kuwait da parte dell’esercito iracheno nel giugno del 1990.
A suo tempo, Barack Obama aveva provocato costernazione, per non dire panico, nel Golfo, lavorando alla firma, il 14 luglio del 2015, di un accordo sul nucleare iraniano. Un negoziato concluso che prevedeva la revoca delle sanzioni imposte a Teheran.
Certo, l’8 maggio del 2018 il suo successore, Donald Trump, le ha reintrodotte dopo aver ordinato il ritiro statunitense dall’Accordo di Vienna. Il suo esigere che le monarchie paghino “cash” per la protezione degli Stati Uniti e il suo ripetere che questi non dovrebbero più impegnarsi in “guerre senza fine” hanno però convinto i dirigenti del Golfo che la loro regione non era più considerata strategica.
la normalizzazione con israele É una questione di sopravvivenza
La normalizzazione con Israele è quindi vista come una questione di sopravvivenza di fronte alla minaccia dell’Iran e persino a quella di un riarmo iracheno. E il resto del mondo arabo è sollecitato a seguire questo cambiamento di rotta.
Il 9 settembre, su pressione dell’Arabia Saudita, degli Emirati arabi uniti e dell’Egitto, una proposta di risoluzione della Lega araba mirante a condannare la normalizzazione con Israele è stata insabbiata. Tutto è avvenuto nel corso di una riunione ordinaria dei ministri degli esteri, con grande dispiacere dei palestinesi. Loro erano gli autori della proposta e in seguito hanno deciso di rinunciare alla presidenza del consiglio della Lega.
“I paesi del Golfo dettano le regole all’interno della Lega araba. Loro hanno i soldi, mentre altrove ci si confronta con la crisi economica o con la guerra civile. Per compiacere i sauditi e gli emirati e ottenere aiuti finanziari basta non parlare più dei palestinesi”.
Afferma un diplomatico maghrebino abituato ai vertici di questo organismo, in cui fino a vent’anni fa la linea di condotta sulla Palestina era dettata dai “falchi” (Algeria, Iraq, Sudan, Siria e Yemen). Segno dei tempi, dell’Ufficio per il boicottaggio di Israele, che dipende dalla Lega araba, non si sente più parlare. E’ anche vero però che il suo quartier generale è a Damasco …
Pronti a prendersi il merito dei progressi compiuti, il 24 ottobre Trump ha annunciato in un tweet che “altri cinque paesi arabi contano di seguire l’esempio” di Abu Dhabi, Khartoum e Manama. Oltre al sultanato dell’Oman, alla Mauritania e al Marocco che proprio a metà dicembre conferma il tweet del presidente americano stabilendo le relazioni con Israele.
la pugnalata alle spalle
I Palestinesi urlano alla pugnalata alle spalle per bocca dell’ex ministro degli Esteri Nabil Shaata, minacciando la Terza Intifada.
Biden difficilmente potrà modificare questo nuovo fragile equilibrio. Sullo sfondo l’Iran che Obama aveva tentato di avvicinare e proprio con quest’ultimo sarà la vera sfida dell’amministrazione Biden.
Tutti gli occhi dei contendenti sono puntati su “nonno” Joe aldilà dell’Atlantico. Un uomo che entrato al Congresso pochi mesi prima della Guerra dello Yom Kippur. Era il 1973.
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