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Prove di Guerra civile: É un miracolo che il Libano sia ancora in piedi

Crisi a cui si sono aggiunte crisi su crisi. Il Medioriente ha un martire ben identificabile dai tempi di Sykes – Picot

Se per caso avete visto le immagini del caos in Libano o se siete interessati all’argomento, questa newsletter fa per voi. Ieri risuonavano per le strade colpi di arma da fuoco. Un ritorno al passato non certo sorprendente per chi conosce il paese dei cedri. Il motivo scatenante è la mancata sostituzione dei giudici che dovrebbero presiedere il processo sulla bomba al porto di Beirut.

In questo braccio di ferro tra manifestanti, legati maggiormente a Hezbollah il partito – Stato sciita spalleggiato dalla Repubblica islamica dell’Iran, e il governo libanese, c’è in gioco l’indipendenza internazionale del Paese, per alcuni addirittura l’esistenza stessa del Libano.

Toccare la giustizia e il modo stesso di interpretarla è un’ingerenza nella sovranità dello Stato. Uno dei poteri che viene meno. Gli analisti vedono uno scivolamento del paese nel caos, nella disintegrazione e forse nella guerra civile.

Ma come siamo arrivati a tutto questo?

Beirut non è una capitale europea, ma non possiamo dire che sia una capitale estremamente Mediorientale. È una capitale di Sykes – Picot: dei due diplomatici, britannico e francese, che divisero quella regione a margine della prima guerra mondiale allorché l’Impero Ottomano fu smembrato definitivamente.

Le anime del Libano, sunnita, sciita e cristiana si sono scontrate prepotentemente nella lunga guerra civile tra il 1975 e il 1990. La divisione settaria della società ridusse in rovine questo paese mediorientale.

La devastazione fu principalmente ricostruita dalle Banche, le uniche in grado di finanziare l’impresa di rinascita dalle rovine. Fu sicuramente un passaggio dove le ingerenze internazionali furono lasciate in secondo piano, sovrastate dal desiderio di farcela da soli.

La Siria (fino al 2005) e i contingenti internazionali per una questione di sicurezza interna rimasero nel paese come presenza militare, ma l’economia sembrava trovare nuovo vigore con la sola forza interna.

Oggi la Banque du Liban detiene il 35,3% e gli altri istituti finanziari il 40% circa dell’enorme debito che ammonta al 150% del PIL. Il deficit viaggia sull’11% e la spesa sul servizio del debito ( interessi + prestito) è da capogiro: 4 miliardi di dollari.

Il Libano è a un binario morto. Il 40% della forza lavoro appartiene allo Stato che non paga le pensioni dei nuovi da mesi.

La tassa su whats app, disposta ante COVID, che prende 2 dollari al mese per scaricare le app gratuite aveva già portato a grandi manifestazioni in un paese dove l’1% della popolazione detiene il 40% delle ricchezze.

Le proteste, goliardiche e spontanee, dell’epoca della “tassa su whatsapp”. Sono passati appena due anni. Ora si spara.

La gente è in piazza sfidando i giorni bui ai confini dell’Europa, qui il COVID-19 non incute alcun timore, hanno altro a cui pensare.

Il lockdown in Libano suona familiare per la generazione che ha vissuto la guerra civile dal 1975 al 1990: lunghe ore spese in casa, con gli sprint velocissimi fuori per prendere i rifornimenti. La gioia di vivere di Beirut e di tutto lo Stato nei decenni trascorsi dopo il conflitto riprendevano il senso dell’esistenza così carica di libertà dopo la privazione.

Mi ricorda Belgrado questo modo di condurre il quotidiano della capitale del paese dei cedri. Anche la capitale dell’ex Jugoslavia ha vissuto il decennio degli anni Novanta di isolamento internazionale dove la crisi era regola. La rinascita è passata attraverso i Cafana sempre pieni degli anni Duemila.

Ma ora parliamo di un Libano con poca speranza dove un 45% degli abitanti vive con meno di 3.100 dollari all’anno. Più del 60% dei 2 milioni e 800mila conti correnti bancari contiene meno di 5 milioni di lire libanesi (3.300 dollari).

Nonostante le apparenti ristrettezze i 4 milioni di cittadini sono sempre stati stereotipati come stilosi o vanesi. E anche in questo tempo funesto dovuto al virus non è mancato il senso di bellezza dell’essere bon vivant con mascherine e guanti all’altezza.

Non mancano però anche gli esempi di disperazione di chi ha sfidato il coprifuoco per denunciare la penuria delle condizioni di vita. Un tassista ha dato fuoco alla sua auto dopo essere stato multato per la violazione del limite di un passeggero. Un rifugiato siriano il 5 aprile scorso si è immolato dandosi alle fiamme.

Il gabinetto governativo durante il mese di maggio ha chiesto all’esercito di distribuire 400.000 sterline libanesi a ogni famiglia bisognosa. Ma non sanno tuttora quali sono le famiglie che effettivamente ne hanno bisogno.

Contraddizioni di un paese nato per essere particolare

La pace potrebbe essere lo stesso un inferno. In Libano in un anno (il 2020) ci sono stati così tanti eventi funesti che è già angosciante sintetizzarli tutti: scandali sulla corruzione, le proteste ad oltranza, la pandemia, il tracollo delle infrastrutture e dei servizi e il collasso del sistema sanitario.

Inoltre ci sono i continui black – out che nella capitale Beirut raggiungono le 3 ore mentre nel resto del paese anche 12,  e la carenza di tantissimi beni nella vita quotidiana permane indefessa.

Poi ad agosto dello scorso anno la bomba al porto della capitale che ha ucciso 200 persone, ferite 6mila e ha prodotto 300.000 sfollati. Secondo una stima occorrono 2 miliardi di dollari per ricostruire tutto. Una cifra enorme.

La popolazione sta vivendo in condizioni precarie da più di due anni a cui si è aggiunto il lockdown e la crisi sanitaria. La Lira libanese ha perso l’80% del suo valore e i prezzi sono aumentati fino a 6 volte: una barretta di cioccolato un anno fa costava 1.000 lire ora 6.000.

I salari sono stati tagliati del 50% a causa del blocco e il tasso di povertà è passato dal 28% del 2019 al 55% di qualche mese fa. La disoccupazione femminile è aumentata del  63%.

L’Odio – Beirut Ottobre 2021 (foto Kmetro0)

L’economia, costituita da molti impieghi informali, ha fatto ritrovare tantissimi a vivere sotto la soglia di povertà. E’ molto frequente vedere gente rovistare tra i cassonetti, rubare in farmacia e nei supermercati. Le rapine sono in crescita esponenziale e molti rapinatori sono occasionali, persone incapaci di dare da mangiare alle proprie famiglie e si scusano perfino per quello che fanno.

Nel paese è presente anche una cospicua mole di rifugiati siriani. L’88% di loro non riesce a far fronte ai bisogni primari.

La solidarietà interna e internazionale stavano salvando per il momento il paese.

Fino a ieri. E’ un miracolo che il Libano sia ancora in piedi.

Nel mio libro Frontiere senza Nazioni. Conversazioni su Jugoslavia, Sahel, Afghanistan e Siria parlo della Libanizzazione: un virus mediorientale. La Siria è il paziente Zero.

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Di Gianluca Pocceschi

scrittore, ricercatore indipendente e analista geopolitico. Nasce a Grosseto nel 1981. Negli anni accademici esplora l’Europa dalla Faculté des Lettres, Langues et Sciences Humaines di Angers. Si laurea in Relazioni Internazionali all’Università di Perugia e dopo studi sulla dissoluzione dell’ex Jugoslavia vola all’Ambasciata d’Italia a Belgrado.
Nei Balcani inizia a scrivere e dopo collaborazioni con testate online fonda geuropa.it
Frontiere senza nazioni è il suo esordio letterario.