La “passaportizzazione” del Donbass è stata decisa da Putin nella primavera 2019, sul modello degli altri conflitti congelati dell’area post-Sovietica (ossia la Trasnistria, l’Akbazia e l’Ossezia del sud, regioni separatiste della Moldavia e della Georgia). Alla fine del 2019, circa 200.000 abitanti delle province separatiste di Lugansk e Donetsk (su due milioni circa) avevano già ricevuto un passaporto russo o fatto pratiche per riceverlo.
La morsa del soft power del Cremlino sembra ancor più materializzarsi dopo l’incontro di dicembre a Parigi tra Russia, Ucraina, Francia e Germania il cosiddetto format Normandia che non si riuniva da 3 anni.
Il primo dell’era Zelinsky ha portato pochi benefici in termini geopolitici a Kiev.
I celebri accordi di Minsk, mai rispettati se non a cannonate, per uno statuto speciale alle province ribelli non trova d’accordo gli ucraini che vorrebbero punire piuttosto che compatire i connazionali russofili.
L’abominevole uomo del gas invece ha messo tutti d’accordo soprattutto Gazprom e Naftogaz e la volontà tedesca di mantenere il passaggio dalle steppe russe all’Europa attraverso il territorio ucraino.
Nessun clamore per una pace che non vuole nessuno.