La pace potrebbe essere lo stesso un inferno. In Libano in un anno ci sono stati così tanti eventi che è già angosciante sintetizzarli tutti: scandali sulla corruzione, le proteste ad oltranza, la pandemia, il tracollo delle infrastrutture e dei servizi e il collasso del sistema sanitario. Inoltre ci sono i continui black – out che nella capitale Beirut raggiungono le 3 ore mentre nel resto del paese anche 12, e la carenza di tantissimi beni nella vita quotidiana.
Poi ad agosto la bomba al porto che ha ucciso 200 persone, ferite 6mila e ha prodotto 300.000 sfollati. Per ricostruire tutto ci vogliono 2 miliardi di dollari. Una cifra enorme.
La popolazione sta vivendo in condizioni precarie da più di anno a cui si è aggiunto il lockdown e la crisi sanitaria. La Lira libanese ha perso l’80% del suo valore e i prezzi sono aumentati fino a 6 volte: una barretta di cioccolato un anno fa costava 1.000 lire ora 6.000. I salari sono stati tagliati del 50% a causa del blocco e il tasso di povertà è passato dal 28% del 2019 al 55% di qualche mese fa. La disoccupazione femminile è aumentata del 63%.
Le anime del Libano, sunnita, sciita e cristiana si sono scontrate prepotentemente nella lunga guerra civile tra il 1975 e il 1990.
La devastazione fu principalmente ricostruita dalle banche, le uniche in grado di finanziare l’impresa di rinascita dalle rovine.
Oggi la Banque du Liban detiene il 35,3% e gli altri istituti finanziari il 40% circa dell’enorme debito che ammonta al 150% del PIL. Il deficit viaggia sull’11% e la spesa sul servizio del debito ( interessi + prestito) è da capogiro: 4 miliardi di dollari.
Il 40% della forza lavoro appartiene allo Stato che non paga le pensioni dei nuovi da 9 mesi.
Il 45% dei libanesi vive con meno di 3.100 dollari all’anno. Più del 60% dei 2 milioni e 800mila conti correnti bancari contiene meno di 5 milioni di lire libanesi (3.300 dollari).